LA CASSAZIONE SUI PERMESSI PERSONALI O FAMILIARI. Facciamo chiarezza

Da alcune settimane, sulla scorta dell’Ordinanza n. 12991/2024 della Corte di Cassazione, numerosi dirigenti scolastici stanno rifiutando di concedere permessi personali o familiari al personale scolastico obiettando sulle motivazioni e opponendo

non meglio precisate “esigenze di servizio”.
Il passaggio della stringatissima decisione della Corte utilizzato per negare i permessi a colleghi e colleghe è quello in cui si legge “che il diritto a tre giorni di permesso retribuito riconosciuto al dipendente, a domanda, nell’anno scolastico, sia subordinato alla ricorrenza di motivi personali o familiari che il dipendente è tenuto a documentare anche mediante autocertificazione, rifletta l’esigenza che si tratti pur sempre di un motivo idoneo a giustificare l’indisponibilità a rendere la prestazione, il che comporta che quel motivo sia adeguatamente specificato e che il dirigente al quale è rimessa la concessione abbia il potere di valutarne l’opportunità sulla base di un giudizio di bilanciamento delle contrapposte esigenze, condizione nella specie non riscontrabile, non risultando dalla motivazione addotta a giustificazione della richiesta (dover accompagnare la moglie fuori Milano) specificata e documentata, anche sulla base di una mera autocertificazione, l’esigenza dell’assenza dal lavoro”.
Quindi, in sostanza la Cassazione ribadisce quello che già sapevamo:
1. il vigente art. 15, comma 2, CCNL 2007 prevede che “Il dipendente […] ha diritto, a domanda, nell’anno scolastico, a tre giorni di permesso retribuito per motivi personali o familiari documentati anche mediante autocertificazione. Per gli stessi motivi e con le stesse modalità, sono fruiti i sei giorni di ferie durante i periodi di attività didattica di cui all’art. 13, comma 9, prescindendo dalle condizioni previste in tale norma”. Un diritto che l’art. 35, comma 12, CCNL 2024 ha esteso anche al personale a tempo determinato;
2. il “motivo” da documentare deve esplicitare perché sussista l’esigenza dell’assenza dal lavoro, senza comunque infrangere il diritto alla riservatezza del/la richiedente;
3. il dirigente potrebbe solo bilanciare queste non meglio specificate “contrapposte esigenze” [naturalmente individuando per iscritto quali sono le “esigenze” e motivando perché sarebbero “contrapposte” al diritto del personale] che in nessun modo sono interpretabili come valutazione discrezionale delle motivazioni addotte, come – per altro – ribadito perfino dall’ARAN: “In ogni caso i motivi addotti dal lavoratore non sono soggetti alla valutazione del dirigente scolastico. Infatti, la clausola prevede genericamente che tali permessi possono essere fruiti “per motivi personali e familiari” consentendo, quindi, a ciascun dipendente, di individuare le situazioni soggettive o le esigenze di carattere personale o familiare ritenute più opportune ai fini del ricorso a tale particolare tutela contrattuale”.
E quindi, in questo caso specifico la Cassazione ha dato ragione al dirigente solo perché non risultava “dalla motivazione addotta a giustificazione della richiesta (dover accompagnare la moglie fuori Milano) […] l’esigenza dell’assenza dal lavoro”.
Vista l’estrema stringatezza del testo della decisione della Cassazione che non permette di avere chiaro quali siano i fatti specifici presi in considerazione, pare opportuno rifarsi alla sentenza di primo grado [Trib. di Milano sent. n. 465/2016] che nella motivazione di rigetto del ricorso del collega limitava la questione al fatto che mancasse “il presupposto per la concessione del beneficio richiesto”, dato che “Nella fattispecie non può ritenersi che l’autocertificazione allegata alla domanda del ricorrente costituisca una ipotesi di “motivo personale o familiare”, avendo il lavoratore semplicemente allegato di “dover accompagnare la moglie fuori Milano” mentre la norma impone la necessaria allegazione di una documentazione del motivo personale o familiare, che non può all’evidenza essere rappresentata da una circostanza rimessa alla volontà del lavoratore, ma deve dipendere dalla ricorrenza di un fatto indipendente dalla volontà e non rimesso alla scelta del lavoratore, diversamente non sarebbe necessaria alcuna documentazione” e richiamando l’art. 5, lett. a) del Contratto integrativo dell’ITI “E. Molinari” di Milano che – sciaguratamente – attribuiva al ds la possibilità di valutare l’“opportunità” della concessione delle ferie.
Ma – soprattutto – è significativo quanto precisato poi nel giudizio di secondo grado [Corte d’Appello di Milano sent. n. 381/2018], che ha escluso che il fatto in questione possa avere a che vedere con quanto già stabilito da una giurisprudenza costante e favorevole ai ricorrenti, perché ritiene esplicitamente “indipendente questa fattispecie dalle altre esaminate dalle sentenze pur prodotte dal” ricorrente perché invece dipendente dal Contratto integrativo d’istituto di cui si è detto.

Quindi, se questa fattispecie è – secondo la Corte di Appello di Milano – “indipendente” dalle altre sentenze che si sono espresse sull’argomento anche l’Ordinanza della Cassazione non inficia nulla riguardo all’amplissima giurisprudenza favorevole al riguardo [ex alii, Corte d’Appello Caltanissetta sent. n. 286/2023, Trib. Gela sent. 123/2023, Trib. Cuneo sent. n. 15/2020, Trib. Fermo sent. n. 53/2020, Trib. Velletri sent. n. 378/2019, Trib. Ferrara sent. n. 54/2019, Trib. Milano sent. n. 2272/2019, Trib. Sciacca sent. n. 252/2014, Trib. Potenza sent. n. 544 e n. 590/2013, Trib. Sciacca sent. n. 271/2013, Trib. Lagonegro sent. n. 309/2012, Trib. Terni sent. n. 299/2011, Trib. Monza sent. 288/2011, Trib. Taranto sent. n. 542/2006].
Tra queste decisioni appare particolarmente significativa quella del Trib. di Gela, della quale riportiamo alcuni stralci: ”Emerge che i docenti dipendenti del Ministero dell’Istruzione, possano godere, oltre dei tre giorni di permesso retribuito, di ulteriori sei giorni di ferie, con le stesse modalità e termini previsti per i permessi retribuiti. Ne discende che, in presenza di esigenze personali o familiare documentate – anche attraverso autocertificazione – la fruizione dei sei gironi di ferie non è subordinata ad alcuna scelta discrezionale dell’amministrazione datrice di lavoro, dovendosi riconoscere “a domanda” del docente.
Appare evidente dunque l’illegittimità della sanzione irrogata in quanto, ad onta delle affermazioni contenute nella contestazione di addebito, il docente non era tenuto a dare avviso della fruizione del giorno di ferie nell’affermato termine di tre giorni (per vero non previsto da alcuna norma né negoziale, né regolamentare) e nemmeno la sua concessione era subordinata alla discrezionalità dell’amministrazione convenuta, che non poteva, in aderenza alle disposizioni citate, sindacare sulle ragioni della richiesta né sulla possibilità di sostituzione dell’assente con altro docente“
. E come sottolinea l’avv. Simone Morgana, ancor più incisivo appare il passaggio in cui si condanna il Ministero al pagamento di una somma a titolo di risarcimento per “lite temeraria”: “La resistenza in giudizio del Ministero convenuto integra, altresì, l’ipotesi di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 co. 3 c.p.c. (…) È stato evidenziato al precedente punto di motivazione come parte resistente, nonostante un chiarissimo quadro della normativa negoziale, il cui dettato non necessita di complicate interpretazioni, abbia irrogato la sanzione disciplinare. Il Ministero, invece, piuttosto che prendere atto dell’errate conclusioni del Dirigente scolastico, annullando in autotutela la determinazione in oggetto, con un sicuro risparmio anche per le casse dell’ente delle spese di giudizio, ha scelto di resistere in giudizio. In tal senso, le difese odierne si palesano tautologiche, in quanto l’amministrazione si è limitata a sostenere la legittimità della condotta sanzionatoria senza aggiungere alcun elemento nuovo alla vicenda oggetto di esame, né in punto di fatto che di diritto. Stando così le cose, la sanzione a tale titolo irrogata deve ritenersi finalizzata all’assolvimento di due obiettivi. In primo luogo, mira a sensibilizzare la pubblica amministrazione resistente ad assumere le proprie determinazioni con maggiore accortezza. In secondo luogo, serve a porre in luce come la risorsa giustizia non sia inesauribile e che sia auspicabile come, nell’ottica deflattiva per cui è pensata la norma oggetto di applicazione, l’autorità giudiziaria sia impegnata solo in ipotesi realmente controverse“.

Ma se qualcuno avesse ancora dubbi, al contrario del Tribunale di Gela che considera chiarissimo [il] quadro della normativa negoziale, il cui dettato non necessita di complicate interpretazioni, il Ministero e le OO.SS. firmatarie potrebbero facilmente risolvere la questione con un’urgente “interpretazione autentica” della norma contrattuale.
Per quanto ci riguarda chiediamo che si dia regolare attuazione alle chiarissime disposizioni contrattuali, garantendo il diritto del personale e che si evitino inappropriati toni trionfalistici, fondati su letture parziali di sentenze specifiche, come se comprimendo i diritti si potesse migliorare la qualità del lavoro.
I miglioramenti si ottengono incrementando organici, stipendi e lavoro stabile non certo favorendo un clima di scontro, come qualche dirigente e qualche loro associazione sembra voler fare.

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