«Personalizzare l’apprendimento» con l’AI? Mistificazioni e distopie

«Personalizzare l’apprendimento» con l’AI? Mistificazioni e distopie*
di Luca Malgioglio

Queste riflessioni preliminari sono destinate a diventare parte di un saggio più ampio di prossima pubblicazione, scritto insieme allo psicoanalista Alessandro Zammarelli

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La presunta “personalizzazione” degli apprendimenti degli studenti, oggi – secondo un incredibile paradosso – dovrebbe realizzarsi grazie all’Intelligenza artificiale.

La logica distorta che sta dietro questo collegamento che viene ipotizzato tra AI e “personalizzazione” della didattica e degli apprendimenti, si fonda in realtà su uno scivolamento più o meno consapevole del piano commerciale su quello educativo: il modello della personalizzazione infatti sembra essere quello per cui il cliente riceve sui social degli annunci mirati, corrispondenti alle sue propensioni e ai suoi interessi, grazie ad algoritmi tarati sui suoi dati personali, sulle sue ricerche, sui suoi acquisti online ecc. In questo modo, il venditore – o meglio, il sistema algoritmico – propone in automatico al cliente ciò che presumibilmente al cliente interessa.

Secondo un pensiero nemmeno troppo implicito veicolato da certe campagne di marketing, se si applicasse questo principio anche in classe – anzi, negli «ambienti di apprendimento innovativi», poiché la classe come microcosmo sociale ed ermeneutico, in questi discorsi centrati sull’individuo-cliente, sembra scomparire -, si stimolerebbe l’attenzione degli studenti, che troverebbero nella scuola ciò che corrisponde ai propri interessi e al proprio modo di apprendere.

Ma è trasferibile, questo modello di relazione cliente/fornitore di servizi, sul piano educativo? In realtà, il principio su cui si fonda non solo la scuola ma la possibilità stessa della conoscenza, è quello della scoperta. Il punto è che non ci si può interessare a qualcosa di cui non si sospetta nemmeno l’esistenza; per questo la scuola, in un orizzonte veramente democratico, istruisce tutti, senza distinzioni, sulle conoscenze fondamentali dei principali campi del sapere umano, inattingibili in assenza della parola umana dell’altro (una parola che può essere lo strumento di un insegnamento intenzionale, quello che caratterizza la scuola, o può essere conservata in un testo scritto). Contrariamente a quanto avviene con la logica dell’«orientamento», che cerca di indirizzare sempre più precocemente bambini e adolescenti su percorsi predeterminati sulla base di presunte propensioni e attitudini – non considerando il fatto che queste sono destinate a cambiare più volte, e devono poterlo fare, nel corso della crescita – un’istruzione democratica dà modo agli studenti di capire con il tempo quali sono i loro veri interessi, attraverso una formazione culturale il più possibile ampia, che si realizza attraverso l’intervento “esterno” dell’insegnante.

È quanto espresso con grande profondità da Gert Biesta, uno dei maggiori filosofi dell’educazione del nostro tempo: «Siamo di fronte all’opzione che sembrava mancare in tutte le critiche formulate nei confronti dell’insegnamento tradizionale, considerato che la critica all’insegnamento -come-controllo si risolve immediatamente nell’idea dell’apprendimento-come-libertà.
Nelle pagine precedenti non ho solo cercato di sostenere che un’alternativa diversa è possibile. Ho anche suggerito che essa deve essere praticabile, perché se sostituiamo l’insegnamento-come-controllo con una presunta libertà di significazione, in realtà non facciamo altro che rafforzare la non-libertà dei nostri studenti: negli atti di significazione gli studenti rimangono con se stessi e ritornano sempre a se stessi, senza mai arrivare al mondo, senza mai raggiungere la (loro) soggettività. Si inizia così a delineare un approccio non egologico all’insegnamento, un approccio che non mira a rafforzare l’Io, ma a interrompere l’oggetto-io, a volgerlo verso il mondo, in modo che possa diventare un soggetto-sé»
(Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p. 77).

Il punto fondamentale, che molti discorsi sembrano trascurare, è che l’apprendimento è sempre parte di una relazione; sono le parole dell’insegnante che aprono mondi altrimenti destinati a rimanere chiusi; e spesso non si impara e non si studia per senso del dovere, ma perché si nutrono affetto, stima e fiducia nei confronti dell’insegnante. Per citare ancora Biesta: «Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento non basta a descrivere il processo educativo.
[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno».

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Ora, in che modo l’«intelligenza artificiale» potrebbe contribuire a tutto questo? L’unica possibile utilità dell’AI è quella di un motore di ricerca che, a differenza dei motori di ricerca tradizionali, è in grado di dare risposte – non di rado sbagliate – ottimizzate attraverso un numero enorme di testi e di simulare, sulla base di criteri probabilistici nell’associazione delle parole e nell’ovvia assenza del pensiero, il linguaggio umano. La risposta che tale modello linguistico può dare, in altre parole, dipende dalla richiesta – o, per usare un termine più tecnico, dal prompt – che gli viene rivolta. Ecco: già da questo si potrebbe capire che per un uso sensato dell’AI gli studenti dovrebbero essere già in grado di conoscere ciò su cui chiedono ulteriori informazioni, con un prompt adeguato. E da dove potrebbero arrivare queste conoscenze, se non da un formazione culturale ricevuta attraverso degli insegnamenti progressivi, nei quali le conoscenze stesse siano ben contestualizzate e rielaborate nel lavoro in classe? Insomma, l’AI potrebbe servire a persone che hanno già la padronanza dei contenuti su cui fanno ulteriori ricerche, e non solo per poter riconoscere le tante informazioni sbagliate che l’AI necessariamente dà (su questo, e su tutti gli altri aspetti specifici dell’AI, rimando all’illuminante saggio di Stefano Borroni Barale, L’intelligenza inesistente, Milano, Altreconomia, 2023: «Per non parlare dell’enfasi tecno-entusiasta con cui un esercito sempre crescente di “esperti” promuove l’adozione immediata di questo tipo di strumento in classe, magari per sviluppare lezioni in classe ribaltata. Lasciare i ragazzi davanti a una macchina che “tira a indovinare” le risposte alle loro domande, quando loro sono stati cresciuti pensando che le macchine sono infallibili non è certamente la più brillante delle idee. Questo tipo di errori ha una incidenza così rilevante che i ricercatori gli hanno assegnato uno dei soliti nomi fuorvianti: “allucinazioni”. A parte l’inadeguatezza della solita metafora antropomorfizzante, questo comportamento non è legato a qualche disfunzione del sistema, ma è proprio il comportamento atteso in base alla maniera in cui è stato scritto»).

Chi è sprovvisto di una vera formazione culturale subisce passivamente le risposte dell’AI a domande fatte senza consapevolezza o corrispondenti a un limitatissimo orizzonte culturale, che l’AI non può che ribadire. L’immagine ormai rara del bambino che sfoglia un libro o addirittura un’enciclopedia era l’emblema di una scoperta dell’inaspettato che può rivelarsi a ogni pagina; l’AI, al contrario, non può “dire” che quello che le si chiede e non le si può chiedere, in questo circolo vizioso, ciò di cui non si sospetta l’esistenza. Insomma, è il Medesimo che è però in grado di parlare come se fosse l’Altro.

Il modello è quello della “bolla” social, che conferma gli utenti nelle loro convinzioni e nei loro pregiudizi, visto che presenta loro contenuti che a tali pregiudizi corrispondono, con una sorta di effetto specchio. E in ogni caso, visto che sintetizza e mette insieme sulla base della probabilità delle ricorrenze linguistiche molte nozioni già esistenti, per tentare di assecondare quanto viene richiesto nel prompt, l’AI rappresenta il modello per eccellenza di quel “nozionismo” che spesso a torto viene attribuito alla scuola, dove invece le conoscenze vengono attualizzate, rielaborate e indirizzate in classe su strade imprevedibili a priori, attraverso il dialogo e lo scambio di idee; con l’AI siamo di fronte all’emblema di una banalizzazione del pensiero, ridotto a media statistica impersonale dei legami tra le parole, delle opinioni e delle frasi già scritte su un argomento, senza vita, senza creatività, senza i legami con l’esperienza piena di un essere umano in carne e ossa.

La sua utilità, è bene ribadirlo, potrebbe essere quella della ricerca delle informazioni; ma per sapere cosa cercare bisogna essere già in possesso di conoscenze e di un’approfondita formazione culturale, sulla base della quale poter formulare le domande e misurare l’utilità e l’attendibilità delle risposte, spesso inesistente (in una recente ricerca che ho fatto su Maria Pascoli, Chatgpt 4.0 mi ha informato del fatto che si trattava della moglie del poeta. E se non avessi saputo che invece è la sorella? Quante false informazioni si stanno diffondendo in questo modo in rete, e non solo?).

C’è da aggiungere che la retorica della «personalizzazione» rientra nella dinamica del controllo dei risultati implicita in tutta l’ideologia delle competenze: l’insegnante sa che non può prevedere integralmente come le conoscenze proposte alla classe o al singolo studente verranno recepite e soggettivate, quando entreranno a far parte dell’orizzonte mentale individuale e irripetibile di ogni singolo allievo. È questa la vera personalizzazione, che non sta nella proposta di contenuti personalizzati diversi da studente a studente ma nella ricezione e rielaborazione personale delle conoscenze su cui si lavora insieme agli altri in classe, in quella che diventa una vera e propria “mente collettiva”.

Quando comunemente si parla di «personalizzazione degli apprendimenti» si intende invece “personalizzazione degli insegnamenti”, si confonde cioè l’attenzione che deve essere riservata a ogni studente nell’istruirlo e nell’indirizzarlo verso la conoscenza, e nella rielaborazione personale di ciò che impara, con la proposta di contenuti già all’origine tarati su molto presunte propensioni e interessi dello studente/cliente, per il quale diventerebbe così praticamente impossibile compiere insieme agli altri delle reali scoperte culturali. Non il nuovo e l’inaspettato, la cui acquisizione è anche impegnativa, ma la riproposizione continua del già noto, in uno sterile individualismo.

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Tra l’altro l’AI viene presentata, incredibilmente, come uno strumento che dovrebbe agevolare lo sviluppo dell’ “intelligenza emotiva” degli studenti. Solo un pensiero magico antropomorfizzante potrebbe partorire un’idea così stupida: è ovvio che ritrovarsi di fronte a un programma algoritmico significa in realtà ritrovarsi soli con se stessi (altro è il libro, in cui sono registrati pensieri espressi da un essere umano in carne e ossa); ed è ovvio che l’intelligenza emotiva così come lo sviluppo delle capacità affettive siano legati alle relazioni con le altre persone, e non a rapporti matematici tra parole che simulano il linguaggio umano.

La prospettiva che si apre su questo punto è realmente distopica; ancora Borroni Barale: «Per controllare tale sistema [la società cibernetica, composta dagli esseri umani e dalle macchine di cui fanno uso] il modo più semplice è diminuire i gradi di libertà degli agenti autonomi (noi) a favore degli automi (le Ai o, più in generale, tutti i software). Alle estreme conseguenze, il controllo totale su una società cibernetica si ottiene riducendo gli esseri umani ad automi e attribuendo, almeno nella narrazione, proprietà umane agli automi».

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Piccola appendice di attualità

Il 21 luglio 2025 il dirigente scolastico dell’istituto “E. Majorana” di Brindisi Salvatore Giuliano, noto “innovatore”, intervistato da Paola Guarnieri dell’ambito della rubrica “Tutti in classe” di RAI Radiouno, ha detto cose molto inquietanti sulla «personalizzazione degli apprendimenti» attraverso l’AI. Il progetto che Giuliano ha fatto approvare nel suo istituto – Book in progress AI – prevede che venga delegata la proposta degli argomenti scolastici all’«intelligenza artificiale», che li adatterebbe allo «stile cognitivo» dello studente (esempio fatto: se uno studente impara meglio con le immagini, l’argomento verrà proposto prevalentemente con immagini). Nessuno tra i conduttori ha fatto obiezioni, almeno una tra le innumerevoli possibili. Ne accenno qualcuna: chi decide, e come, quale sia lo “stile cognitivo degli studenti?”. E poi, proporre agli studenti solo quello che sanno già fare (ammesso che sia così) come permette di far sviluppare agli studenti capacità e abilità nuove (nel caso della predilezione per le immagini, quella di comprendere un testo scritto, ad esempio), che sarebbe uno dei compiti più importanti della scuola? E dove finisce in questa “proposta” di contenuti da parte dell’AI la relazione umana, fondamentale e indispensabile in qualunque percorso di conoscenza? 

L’originario progetto “Book in progress” (autoproduzione dei libri di testo da parte della scuola) era già estremamente discutibile di suo: chi garantisce che i contenuti prodotti da singoli insegnanti siano qualitativamente validi? Perché imporre la rinuncia a un fecondo confronto tra l’insegnante di una disciplina, i libri di testo e gli studenti? Il libro di testo, quello accurato almeno, è o dovrebbe essere il prodotto di un ampio confronto tra esperti e a più voci sui fondamenti e l’evoluzione di una disciplina: rinunciarci potrebbe rappresentare un notevole impoverimento delle prospettive e dei punti di vista. Ora, usare addirittura l’AI per produrre questi contenuti è un’idea veramente distopica; tra l’altro nelle parole di Giuliano e in quelle degli autori di questa intervista non viene nemmeno sfiorata la questione fondamentale dell'(in)attendibilità delle risposte dell’AI.

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* pubblicato originariamente su La nostra scuola

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