GIORNO DELLA MEMORIA E GLI ODIERNI OLOCAUSTI

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi.
La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.” Primo Levi

Perché la Giornata della Memoria 2024 sia utile anche a discutere degli odierni olocausti

Il 27 gennaio del 1945, giorno della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa, fu un passo fondamentale per rivelare al mondo la tragedia dell’Olocausto, avvenuta durante la Seconda Guerra mondiale, conflitto scatenato dal nazifascismo e al quale si oppose uno schieramento mondiale antifascista, che provocò più di sessanta milioni di morti e si concluse con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. 

Il primo novembre del 2005, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (con la risoluzione 60/7) decise che quella data avrebbe dovuto ricordare, a livello internazionale, la Shoah; nacque così il “Giorno della Memoria”.

Precedentemente (legge 20 luglio 2000, n.211) lo stato italiano aveva riconosciuto “il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le deportazioni di militari e politici nei campi di sterminio nazisti, le leggi razziali, la persecuzione italiana, da parte fascista con la collaborazione di civili fedeli a Mussolini, dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e dato asilo ai perseguitati.

In occasione del “Giorno della Memoria” sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico (ma anche a migliaia di rom e sinti) e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Peraltro, noi in prima persona da quell’anno siamo stati organizzatori e promotori di innumerevoli iniziative nelle scuole, nelle Università, in ogni ambito della società civile e del mondo della cultura vista l’importanza della giornata nell’ottica di una memoria attiva e del fecondo rapporto tra il passato, il presente e il futuro.  

Occorre, certo, coltivare la memoria perché simili eventi non possano più accadere, ma si può, e si deve, indagare e ricordare il passato per comprendere meglio il presente e al fine di progettare un futuro che non ripeta gli orrori del passato. Non per caso, il desiderio di liquidare il passato attraverso l’oblio e il “revisionismo storico” significa che sulla memoria può scatenarsi una contesa perché il ricordo è una relazione intersoggettiva tra generazioni, luoghi e tempi diversi e – talvolta – viene ingabbiato nella rituale retorica. La memoria indaga l’avvenimento, ma contestualizza anche la complessità degli eventi attraverso una ricostruzione storica che si avvale di fonti inoppugnabili e serve da monito per il futuro.

Oggi il presente è caratterizzato da una conflittualità militare sempre più estesa, da troppi scenari di guerra. Come ha più volte detto il Papa, “siamo in presenza di una terza guerra mondiale a pezzi”. È evidente, perciò, che non è possibile riflettere oggi sul “Giorno della Memoria” senza ragionare sui conflitti in atto e sui conflitti che all’ombra dell’Occidente si sono consumati nel frattempo. Siamo ancorati alla idea “dell’impossibilità della guerra e all’inevitabilità della pace”, consapevoli che la via delle trattative e della pace non ha alternative, visto che le armi atomiche disponibili, se utilizzate, avrebbero effetti devastanti sulla vita sul pianeta. 

Ma i fatti di Gaza vanno ben oltre ciò che avviene negli altri pur terribili conflitti in atto. Tutte le guerre, infatti, determinano morte tra i combattenti e, soprattutto tra la popolazione civile, immani distruzioni. Nella Striscia (365 chilometri quadrati, circa 2 milioni e 300 mila abitanti, prima dell’intervento israeliano) il numero dei civili morti, oltre 22.000 e fra questi moltissimi bambini, le impossibili condizioni materiali di vita per chi continua a risiedervi, le ipotesi, sempre più diffuse, di deportazione della popolazione ci dicono che siamo in presenza di qualcos’altro. Chiamarlo genocidio non ci sembra un’esagerazione.

Di tutto questo, a nostro avviso, dovrebbero tenere conto le riflessioni da sviluppare il prossimo 27 gennaio. Invitiamo, perciò, il mondo della scuola e della formazione a non rinunciare al dovere di una rielaborazione critica del nostro presente. Innanzitutto, legando le riflessioni sulla tragedia della Shoah alla ricostruzione della storia mediorientale, perché solo comprendendo le ragioni profonde del conflitto attuale è possibile costruire, coerentemente con il “Giorno” della Memoria”, un percorso di pace.

In questa sede ci limitiamo a ricordare pochi dati: la migrazione in Palestina di ebrei europei, che ha portato alla costituzione dello Stato di Israele nel 1948, al colonialismo da insediamento con la cacciata violenta di oltre 700 mila palestinesi dalla loro terra e dalle loro case, colonialismo da insediamento iniziato già prima della seconda guerra mondiale per diventare più consistente all’inizio del XX, dopo il manifesto per la costituzione dello Stato ebraico pubblicato da Theodor Herzl, fondatore e principale ideatore del sionismo, e, infine, “ valanga” dopo il 1945. 

Questo movimento, il sionismo, fondato sull’idea di “ricostituire uno Stato ebraico dopo 2000 anni di diaspora”, si rivolgeva a una parte sola della popolazione, quella accomunata dalla religione (esclusività etnocratica e teocratica) e proprio per questo doveva basarsi su concetti infausti: la “superiorità di un popolo” e il ritorno alla “terra promessa per il popolo eletto”, che secondo molti storici e prestigiosi intellettuali israeliani non sono altro che una invenzione. “Una terra senza un popolo per un popolo senza terra”: uno slogan che non solo non vedeva gli altri come esistenti, ma si prefiggeva l’obiettivo, peraltro realizzato, di cacciare i palestinesi dalle loro terre e poi gli arabi e i goyim.  

Invitiamo, perciò, docenti e alunne/i a documentarsi, anche utilizzando il materiale didattico reperibile sul sito dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle Università, per rendere più forti le ragioni della pace e della convivenza, perché non siano ripetuti, oggi, i tragici errori del passato e affinché nessuno possa poi dire che non sapeva.

È il filosofo Kant a ricordare agli uomini che devono riconoscere che la Terra è di tutti. Ci piace perciò concludere con queste sue parole: “[…] in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno al fianco dell’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra”.

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